Il mese di Febbraio diventa sempre più un periodo topico per il mondo del vino. Ancora prima del Vinitaly, mentre l’emisfero sud si prepara alla nuova vendemmia, con il Carnevale alle porte eccoci ripartire per affrontare il mercato, le opinioni, le recensioni.
Febbraio con le Anteprime, un po’ in tutta Italia ma con la Toscana sicuramente sugli scudi: per 10 giorni si potranno scoprire le nuove annate che entreranno in commercio e quella ultima in anticipazione. Si parlerà quindi di Vernaccia di San Gimignano, di Chianti e Chianti Classico, di Vino Nobile e di Brunello.
Uno dei temi più discussi nell’ultimo periodo tra gli addetti ai lavori si gioca sul Sangiovese: non sono pochi i produttori che promuovono il vitigno principe della Toscana e del “ Pianeta Chianti”, come l’unico e vero interprete capace di valorizzare il territorio e per questo insistono nel coltivarlo e vinificarlo in purezza.
Concordo in parte con questa linea di pensiero.
Da un lato, è vero che il sangiovese è la base del vigneto toscana, ma è oltremodo veritiero che coltivato in purezza in certi ambienti pedoclimatici può dare vini squilibrati, duri, sgraziati.
Senza dubbio molti vini sangiovese sono ricchi di personalità e facilmente identificabili sul territorio dato che è il terroir a diventare così l’unica variabile. Il Brunello ne è l’espressione più evidente e il successo che riscuote lo dimostra.
Negli anni passati, quando la selezione clonale e gli studi sul Sangiovese erano agli albori, questa sua ruvidità era più marcata. La modifica di alcuni disciplinari permise di inserire una % di altri vitigni autorizzati ( tra questi anche il Merlot). Lo scopo fu quello di ingentilire i vini, internazionalizzandone il gusto. Ad oggi quelle scelte hanno portato ad un innalzamento della qualità media dei vini ma anche discussioni, alcune inchieste e scuole di pensiero opposte.
La Viticoltura del presente permette agli operatori del settore di avere a disposizione varietà di Sangiovese selezionate che esprimono vini più complessi e ricchi, uve più resistenti alle malattie per effetto di piante che producono grappoli più piccoli e meno compatti. Ritengo che non si possa dire lo stesso per gli altri vitigni autoctoni che compongono il patrimonio del Chianti. Credo che si sia fatto molto poco per cercare di studiarli e di selezionarli. Ecco perché molti produttori scelgono la via del sangiovese in purezza; non hanno molte altre opportunità, o tornano al gusto internazionale o si specializzano sul monovitigno.
In tutto questo, a mio modo di vedere, l’uso dei vitigni internazionali, se condotti e prodotti nel territorio, può valorizzare un terroir ma sono anche convinto che l’uvaggio del Chianti, usato generalmente in Toscana, studiato e catalogato dal Ricasoli, abbia la sua ragione di essere e non meriti di andare perso.
Se uno dei motivi del suo lento abbandono è legato alla presenza dei vitigni a bacca bianca, togliamoli come già avviene! Magari non perdiamo del tutto queste varietà di uva: sono fondamentali per continuare a produrre almeno il Vinsanto.
Se un altro motivo è quello di ridurre i costi semplificando la gestione di un vigneto a varietà di uva singola, sappiamo bene che un vigneto è fatto di filari e corpi a sé stanti! Il sacrificio non sarebbe così evidente!
Gli altri vitigni a bacca rossa del Chianti, che finalmente qualcuno sta valorizzando anche in purezza, dovrebbero essere considerati e ripensati come un enorme potenziale qualitativo, unico e non riproducibile! La produzione di vini assemblati con il vinaggio è una delle basi dell’Enologia di qualità. Produrre vini ottenuti da diverse varietà viticole, provenienti dallo stesso vigneto, permette di compensare i difetti di ognuno e di plasmare il vino finito nel modo migliore senza per questo perdere in tipicità del territorio.
L’uvaggio Chianti è unico, non ce lo può copiare nessuno al mondo e , al suo interno ha una variegata scelta di vitigni autoctoni. D’altronde in Francia , i vini di Bordeaux sono ottenuti da vinaggi con il Petit Verdot ad arricchire il Cabernet sauvignon, il franc, e il Merlot di colore e tannini migliorandone la longevità. Il Colorino, per esempio, era inserito nel Chianti con lo stesso scopo! La Malvasia nera, il Canaiolo, il Mammolo e quanti altri ce ne sono meritano maggiore considerazione. Ben dosati e alternati in base alle condizioni pedoclimatiche apportano profumi, sapore ed eleganza.
L’Università di Firenze e altri Centri di ricerca stanno facendo molto per selezionare dai vecchi vigneti varietà oramai rare ma ci vuole più convinzione da parte dei produttori, così come fu fatto per selezionare il sangiovese.
Opero da molti anni nella zona di Montepulciano, nella terra del Vino Nobile. Per mia esperienza i vini ottenuti da Sangiovese in purezza in questa zona, spesso risentono di una nota tannica dura, difficile da plasmare con l’affinamento in legno; spesso i vini Nobile ottenuti dai vigneti impiantati molti anni fa sono più eleganti perché contengono quote di uve autoctone in proporzioni definite dal vecchio disciplinare. Certamente anche l’età del vigneto incide, nel senso che da piante vecchie la qualità dell’uva da vino è migliore, ma non è solo quello il motivo; è la proporzione degli equilibri creata da quella ricetta del Chianti antico che fa la differenza.
Mi auguro che i futuri reimpianti vengano progettati valutando queste variabili importanti per mantenere la nostra originalità e dare un futuro migliore ai nostri vini. Al tempo stesso spero che su questa tematica si apra un dibattito franco e utile a tutti.

 

Arezzo 8 febbraio 2018

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